Rodolfo Graziani nacque l’11 agosto 1882 a Filettino, paesino situato nella Valle dell’Aniene, ai piedi del Monte Viglio.
Quarto di nove figli, dalla madre Adelia Clementi ricevette un educazione all’insegna del sentimento religioso, del culto del bene, educato verso mete nobili ed elevate.
Indirizzato dal padre Filippo nel seminario di Subiaco, dove osservò “regole” rigide e tempranti, già da allora Rodolfo mostrò amore per l’imprevisto e sete di avventura.
Durante gli anni del liceo, in lui si era sviluppata la tendenza alla carriera militare.
Al sacerdozio non aveva mai pensato se non in qualche periodo di fugace esaltazione; non era molto attratto dalla politica, anche se dal padre era stato educato ai principi monarchici.
Era più interessato alla questione sociale: pensava infatti che un sistema di collaborazione fra capitale e lavoro potesse avvicinare le classi con beneficio reciproco, senza bisogno di ricorrere alla lotta di classe.
A causa delle ristrettezze economiche, non potendo frequentare la scuola militare, si iscrisse al notariato nell’Università di Roma e, contemporaneamente, fece il servizio militare di leva nel plotone allievi ufficiali del 94° Regg. Fanteria in Roma.
Il I° maggio 1904 fu nominato sottotenente e destinato al 92° Fanteria a Viterbo.
Verso il finire del servizio militare si preparò per un concorso pubblico, ma nel momento in cui il suo nome fu chiamato egli non si mosse: era come se una forza superiore lo avesse trattenuto.
Fece così il concorso per ufficiale effettivo, dove presentò un tema:”dimostrare come le Nazioni, pur cadute nella rovina, possano risorgere, sempre che mantengano intatti l’onore e l’amore all’ indipendenza e alla libertà”.
Si realizzò così il suo sogno: Ufficiale nel I° Reggimento Granatieri di Roma, era il 1906.
Nel 1908 fu destinato in Eritrea, dove entrò in contatto con quel deserto che aveva già infiammato la sua fantasia di adolescente, e dove imparò l’arabo e il tigrino, per penetrare nel costume delle popolazioni locali.
Destinato al primo battaglione con sede ad Adi Ugri, vi rimase quattro anni, dove ebbe modo di temprare il suo carattere.
La sua esperienza coloniale terminò alla fine del 1912 a seguito di un morso di un serpente velenoso che per oltre un anno lo vide combattere tra la vita e la morte.
Nel 1913 sposò Ines Chionetti, amica d’infanzia di Subiaco, e sei mesi dopo era già in Cirenaica a combattere per lo scorcio della prima campagna libica; l’unica figlia nacque alla vigilia della partenza, dell’allora Capitano, per la Grande Guerra.
Ne rientrò con l’aureola dell’eroe: più volte ferito, decorato al valore, promosso per meriti di guerra, citato nei bollettini militari e nei diari storici delle varie grandi unità a cui era appartenuto.
Aveva 36 anni: il più giovane colonnello dell’Esercito Italiano! Già un alone di leggenda circondava il suo nome e le sue gesta.
In quel periodo non vi era ancora il Fascismo; e debbono così ricredersi, quanti affermarono ed affermano ancor oggi che la sua carriera fu dovuta a favoritismi da parte di Mussolini e del Regime.
Rientrato in Italia con il 61° Fanteria, che egli comandava in Macedonia, tornò a Parma, sede normale di quel Reggimento, dove prese contatto per la prima volta, suo malgrado, con l’ambiente politico.
Finita la guerra, infatti, cominciò il triste periodo 1919-21, dove vi furono agitazioni politiche, scioperi, rivolte, rappresaglie.
Ci trovavamo in una situazione in cui: la nostra vittoria era misconosciuta all’estero e rinnegata all’interno; il sacrificio dei seicentomila morti e di milioni di mutilati e feriti, vilipeso; fu dato ordine agli ufficiali di uscire disarmati; furono strappati dal petto dei valorosi i contrassegni delle medaglie; furono invase le caserme, distrutte le loro insegne, e i reduci colpiti a morte; furono offese le bandiere della Patria!
A Parma ribolliva più che altrove la lotta delle opposte fazioni, al punto che il Colonnello Graziani venne segretamente condannato a morte dal comitato rivoluzionario, reo di aver assunto un’ atteggiamento risoluto contro gli sbandati, per ricondurli all’ordine.
Graziani in quei frangenti mantenne un’assoluta neutralità fra i partiti, e dopo un anno passato nell’incertezza ” cedetti anch’io alla crisi che colpì allora tanti ufficiali e chiesi di essere collocato in aspettativa per riduzione dei quadri”.
Nell’ottobre del ’21, dopo due anni di distacco, e dopo alcuni tentativi di darsi al commercio con l’oriente, Graziani accettò la proposta, fattagli dall’allora Ministro della Guerra, di andare in Africa.
In quell’anno era ricominciata la conquista della Libia la cui campagna si era dovuta abbandonare nel corso della Guerra italo-austriaca: Graziani, destinato a Zuara, ebbe inizialmente funzioni puramente militari, ma quando le operazioni presero un raggio di grande ampiezza, divenne uno dei migliori esecutori della politica interna.
Attenendosi a fermi principi di giustizia, Graziani, nominato Comandante militare e politico dell’Altopiano del Gebel Occidentale, si conquistò l’immenso ascendente e il prestigio, che continuò a godere per tutta la vita, presso le popolazioni libiche.
Fino al 1929 egli, con il grado di Generale di Brigata, continuò ad esercitare funzioni politico-militari nella progressiva avanzata dapprima verso la Sirtica e poi verso Fezzan, fino ad essere considerato “elemento prezioso” dall’allora Governatore De Bono.
Nominato Vice-Governatore della Cirenaica, dove la politica iniziale del Governatore Badoglio aveva prodotto un vero disastro, tradusse in atto, con mano ferma, le direttive impartitegli, riformando su nuove basi il corpo di truppe coloniali, imprimendo maggior vigore alle operazioni, stroncando ogni connivenza con i ribelli.
Nel marzo 1934 il Generale Graziani consegnò la Cirenaica completamente pacificata ed etnicamente riordinata nella sua essenza al nuovo Governatore Generale Maresciallo Italo Balbo.
Tale operazione gli valse, da parte del Ministro delle Colonie, la citazione quale benemerito della Patria nei due rami del Parlamento.
Nel frattempo, nel ’32, era stato promosso Generale di corpo d’Armata per “meriti speciali”; aveva allora 50 anni, e si trovava nel massimo vigore della mente e del corpo.
Tornato dalla Libia ottenne il comando del Corpo d’Armata di Udine, il più importante sia per estensione territoriale, sia per il numero delle unità.
Alla fine del ’34 il nostro Governo, dopo molte esitazioni, decise di liquidare la situazione etiopica, divenuta sempre più acuta; e nel febbraio dell’anno successivo, Graziani ricevette l’ordine della sua nuova destinazione: Somalia come Governatore e Comandante supremo delle truppe.
Incaricato del comando del fronte Sud con compiti iniziali di difesa, ricevette quasi subito l’ordine, con l’appoggio del Ministro delle Colonie Lessona, di procedere all’offensiva, cosa che fu resa possibile con la motorizzazione delle truppe, effettuata soprattutto con mezzi di trasporto e di manovra acquistati dagli Stati Uniti.
Il 9 maggio del 1936 il Governo italiano proclamava l’annessione dell’Etiopia e la creazione dell’Impero e, quindici giorni dopo, il Maresciallo Badoglio, primo Viceré, rientrava in Italia lasciando la reggenza del Vicereame a Graziani suo successore, che nel contempo veniva nominato Maresciallo d’Italia.
Graziani, contrariamente a quanto si credeva in Italia, venne a trovarsi in una difficile situazione politico e militare.
L’immenso Impero non era occupato che in piccolissima parte e, per giunta, si era nel mese delle pioggie che rendeva quasi impossibile l’affluenza dei rinforzi e dei rifornimenti.
La situazione costituzionale del Viceré non era brillante, poiché egli aveva tutte le responsabilità ma scarso potere.
Con vigorose operazioni affermò saldamente il nostro dominio e fece compiere grandiosi lavori pubblici, che restano a tutt’oggi monumento delle capacità e della volontà civilizzatrice dell’Italia fascista.
Il Viceré continuò a dirigere l’Impero anche quando fu ferito, a seguito di un attentato nel febbraio 1937 in occasione dei festeggiamenti per la nascita del Principe di Napoli da parte di alcuni “Giovani Etiopici” istigati dall’Intelligence Service britannico; nel mese di dicembre fu sostituito dal Duca d’Aosta.
Dopo il suo rimpatrio dall’Etiopia Graziani restò a disposizione del Governo: tenuto piuttosto in disparte, anche a causa della sua grande popolarità che suscitava invidie, gelosie e risentimenti.
Nel frattempo la situazione europea si era andata aggravando, e solo dopo lo scoppio della guerra, il 3 novembre ’39, il Maresciallo apprese dalla radio della sua nomina a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, a dimostrazione dell’imbarazzante situazione interna.
Il suo potere rimase comunque limitato dal Maresciallo Badoglio in qualità di Capo di S.M. Generale da una parte, e dal Sottosegretario alla Guerra dall’altra.
Nonostante le limitazioni, Graziani si rese subito conto delle manchevolezze che caratterizzavano la nostra situazione militare, di cui parlò apertamente a Mussolini.
Vi erano deficienze in ogni campo: materie prime, produzione ed armamento.
Come è riportato nel suo libro “Ho difeso la Patria”, delle “otto milioni di baionette, ne esistevano solo 1.300.000 e altrettanti fucili e moschetti mod. 1891”; ma le deficienze erano ben altre.
L’Esercito era attraversato da una crisi morale; l’esistenza della Milizia Nazionale, che non era mai stata tollerata, l’intromissione della politica nelle cose militari, l’obbligo del matrimonio e la creazione di numerosi altri Corpi armati, estranei all’Esercito, costituivano elementi che ne logoravano il prestigio e ne aggravavano la debolezza.
Al momento in cui Graziani assunse le funzioni di Capo di S.M. era già in atto la seconda guerra mondiale, anche se ci vedeva ancora non belligeranti, e le nostre Forze Armate si trovavano nelle seguenti condizioni:
– L’Aviazione era scarsa ed invecchiata, anche perché non aveva alle sue spalle un’adeguata industria. Il bilancio era scarno e in risposta alle proposte di Balbo – che l’aveva portata in alto con le sue imprese – ne era stato disposto l’allontanamento con l’invio in Libia;
– La Marina, fiore all’occhiello, aveva molte belle unità, ma era priva di aviazione specializzata e povera di basi logistiche attrezzate;
– L’Esercito era numeroso, ma con un armamento, un equipaggiamento, un addestramento certamente assai inferiori a quelli dell’Esercito che aveva combattuto e vinto la grande guerra del 1915-18.
In tutto questo, infine, la nostra industria bellica era debolissima; le nostre riserve di materie strategiche e di derrate non esistevano quasi più.
Questo deplorevole stato di cose dipendeva formalmente dal Capo del Governo, che per lunghi anni aveva esercitato le funzioni di Ministro delle tre Forze Armate; ma la responsabilità effettiva ricade storicamente sul Capo di Stato Maggiore Generale Maresciallo Badoglio, il quale ricopriva tale incarico fin dal 1926 ed era, per legge, il consigliere militare del Capo del Governo e l’autore dei piani di guerra.
Badoglio, inoltre, era presidente dell’Istituto Nazionale delle Ricerche, creato apposta per scopi bellici, incaricato di sovrintendere alla mobilitazione industriale, tecnica e civile; era membro della commissione suprema per la difesa dello Stato.
A parte l’impreparazione, il Governo seguiva una strana politica militare: noi compravamo dall’America con oro e valute estere le materie grezze e rivendevamo i prodotti lavorati, e cioè armi ed equipaggiamenti all’ estero e soprattutto alla Francia ed alla Romania, mentre le nostre FF.AA. ricevevano ben poco.
E mentre sembrava che l’Italia dovesse seguire una politica di neutralità, i miracolosi successi germanici , che avevano impressionato tutto il mondo e segnato una grandiosa sconfitta della flotta britannica, portarono Mussolini ad orientarsi verso l’intervento.
Il Duce riteneva sicuro ormai che la Germania avrebbe vinto la guerra e riteneva urgente che l’Italia le fosse al fianco, sia per assicurarsi alcuni vantaggi, sia per frenare l’eventuale egemonia tedesca; per suo ordine, tramite il Maresciallo Graziani, comunicò a tutti i generali dell’Esercito che la guerra si sarebbe combattuta non per la Germania, né con la Germania, ma a fianco della Germania.
La politica del Governo, basata su presupposti che non dovevano dimostrarsi reali, ci lanciò così in una lotta mortale, senza adeguata preparazione diplomatica, politica e militare.
LA GUERRA
La guerra venne dichiarata il 10 giugno del ’40 con lo spiegamento iniziale di difensiva assoluta sulle Alpi Occidentali.
Solo dopo dieci giorni si passò da uno schieramento difensivo ad uno offensivo.
Le operazioni durarono tre giorni, ed il 24 giugno i francesi sottoscrissero l’armistizio.
Ultimata la campagna del Fronte Occidentale, Graziani tornò a Roma, e la sera del 28, mentre era nella sua tenuta di Arcinazzo, ricevette una telefonata che gli annunciava la morte del Governatore e Comandante Superiore in Libia, Maresciallo Balbo, avvenuta a Tobruch, e l’ordine di partire subito per assumerne la successione.
Gli ordini erano precisi: invadere l’Egitto! L’obiettivo era Alessandria, base della flotta del Mediterraneo Orientale e chiave del delta del Nilo.
L’occupazione significava il dominio del Mediterraneo centro-orientale e il sicuro dominio del Canale di Suez, con prospettive politiche e militari illimitate.
Conquistare Alessandria sarebbe stata per noi la vittoria; non conquistarla, la sconfitta più o meno lontana, ma sicura.
Per compiere l’impresa, unica nella nostra storia millenaria per diventare realmente una grande potenza mediterranea, avremmo dovuto disporre di 5 o 6 divisioni fra corazzate e motorizzate, mentre il nostro potenziale era di 73 divisioni armate con fucili mod. 1891: un “gregge” di uomini mal armati, destinati al massacro ed al campo di prigionia.
Il nostro organismo militare, preparato da un opaco conservatore come il Maresciallo Badoglio, non rispondeva minimamente alle esigenze della lotta.
Il punto di vista, che Graziani aveva più volte ripetuto in precedenza al Capo del Governo, era sempre quello: poiché nonostante l’evidente impreparazione militare, ci avevano gettati nella lotta, bisognava vincere e cioè compiere uno sforzo concorde e sovraumano per riparare alla situazione di impotenza cui ci aveva condotto una politica militare assurda e retrograda.
L’offensiva prevista per il 15 luglio era impossibile a causa della mancanza dei mezzi più elementari non solo per combattere, ma anche per vivere nel deserto, e così egli ottenne un rinvio; ma il 25 agosto arrivava l’ordine da Mussolini di avanzare in Egitto, motivato da altre ragioni politiche: i tedeschi stavano per sbarcare in Inghilterra, e in vista delle trattative anglo-tedesche noi saremmo rimasti fuori da ogni discussione se non avessimo avuto almeno un combattimento con gli inglesi.
In un’iniziale offensiva nel settembre-ottobre i nostri soldati si spinsero fino a Sollum, poco oltre la frontiera egiziana.
Ma né lo sbarco tedesco in Inghilterra, né le trattative ebbero luogo, e tutte le richieste di automezzi da parte di Graziani furono vanificate; in più dal Gen. Roatta egli venne a sapere che per “ordine superiore” ben 25.000 automezzi erano stati accantonati per una futura campagna contro la Jugoslavia!
La cosa molto strana fu che il nostro Governo rifiutò per ben tre volte (3 settembre, 4 e 28 ottobre 1940) l’aiuto da parte dell’alleato tedesco, che offriva non solo le divisioni corazzate, ma anche autocarri speciali per il deserto.
La sera del 27 ottobre a Cirene, Graziani apprese dalla radio dell’attacco alla Grecia.
Fu allora che comprese che il Governo e lo Stato Maggiore avevano dato sfogo alla loro mania di azione nei Balcani e che contro tutti, anche e specialmente contro la più decisa opposizione dell’alleato, avevano gettato le poche risorse italiane non sul teatro principale, quello del Mar Mediterraneo, ma in direzione eccentrica, ove andavano a cercare gratuitamente nuovi nemici! Da quel momento fu chiaro come la guerra italiana fosse perduta e le truppe d’Africa abbandonate alla loro sorte.
La campagna di Grecia, iniziata e condotta con incredibile leggerezza, si risolse in un disastro militare accompagnato da un disastro politico e morale.
Il 4 dicembre, il Capo di Stato Maggiore Generale, responsabile dell’operazione oltremare, Maresciallo Badoglio, schiacciato dalla sue tremende responsabilità, venne sostituito.
Ma anche in Africa la catastrofe era imminente: un deciso contrattacco inglese, appoggiato da mezzi corazzati e da una forte aviazione, travolse le divisioni italiane riuscendo persino ad invadere la Cirenaica e conquistarla.
Il morale delle nostre truppe, scosse e disorganizzate, scese molto in basso, ma il comando inglese non potè approfittarne per tentare la conquista della Tripolitania; uomini e mezzi dovettero essere trasferiti in Grecia.
Dal principio alla fine gli italiani vennero dominati non perché fossero mediocri soldati, ma perché, anche se fossero stati i migliori di tutti, non avrebbero potuto a lungo resistere alla superiorità di mezzi che gli inglesi potevano mettere in campo.
A causa di questa superiorità le battaglie assunsero il carattere di rese più che di combattimenti.
Mussolini, costatando la gravità in cui si trovavano i nostri soldati, accettò l’offerta d’aiuto di Hitler; un’armata tedesca, totalmente corazzata e meccanizzata, addestrata per la guerra nel deserto, fu inviata in Africa sotto il nome di Afrikakorps, affidata ad un brillante ufficiale: Erwin Rommel.
Nel frattempo Graziani chiese di essere esonerato da ogni incarico e lasciò la Libia l’11 febbraio 1941.
Rimpatriato, il Maresciallo si dedicò alla bonifica agraria della sua tenuta di Casal Biancaneve sugli altipiani di Arcinazzo, schivando ogni contatto con personaggi ufficiali.
Nel novembre del ’41, il Duce, essendo stata ristabilita, per il concorso tedesco, la situazione in Cirenaica, credette giunto il momento di ristabilire anche il prestigio del Comando Supremo, dando la responsabilità della sconfitta al Maresciallo Graziani.
Fu istituita una commissione d’inchiesta presieduta dal Grande Ammiraglio Thaon de Revel; la commissione doveva agire segretamente, senza interrogare nessuno, e tanto meno l’interessato.
Ma il Maresciallo Graziani ne venne comunque a conoscenza e scrisse a Mussolini chiedendo di presentare un memoriale documentato di quanto in realtà era avvenuto.
Mentre la commissione aveva espresso un parere completamente sfavorevole, la presentazione del memoriale troncò ogni ulteriore procedimento; così nel gennaio ’43 il sottosegretario alla guerra, Gen. Scuero, comunicò al Maresciallo che non esisteva più un “caso Graziani”, e che quindi la vertenza era esaurita.
Nel frattempo molti mesi erano passati, e la situazione italiana diventava sempre più difficile sia politicamente che militarmente: Graziani ne seguiva l’andamento con estremo interesse, a tal punto che la caduta del Regime Fascista, il 25 luglio, non lo sorprese più di tanto.
Lo stupì invece l’incredibile scelta fatta dal Re di nominare il Maresciallo Badoglio a Capo del Governo, anzi a dittatore militare!
Proprio Badoglio, principale responsabile non solo della impreparazione delle Forze Armate, ma anche della insensata condotta militare del primo e decisivo periodo della guerra.
Alla fine del Luglio del ’43 vi fu un contatto da parte della Casa Reale, dove fu chiesto al Maresciallo Graziani un suo parere sulla situazione attuale.
Il suo pensiero in sintesi fu:”come il comunicato di Badoglio ha annunciato, la guerra deve continuare, l’onore nazionale ci comanda di tener fede ad un patto solennemente sancito, a meno che non vogliamo essere condannati dai nostri figli per aver trascinato la Patria in guerra senza preparazione ed esserne usciti poi con la taccia di tradimento.
Qualsiasi altro male doversi preferire all’annientamento morale perché le Nazioni possono rialzarsi dalla rovina, non dal disonore.
Meglio perdere tutto, fuorché l’onore! Secondo me, il sovrano deve seguire questa linea, anche se dovesse costargli la perdita della Corona”.
Nel mese di agosto segnali provenienti dalla casa Reale facevano prevedere una sostituzione di Badoglio proprio con Graziani; ma gli avvenimenti che seguirono, cioè la firma dell’armistizio di Cassabile e la fuga del Governo e della famiglia Reale, travolsero ogni progetto.
LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Nel fatale settembre del 1943 cominciò per il Maresciallo Graziani una nuova esistenza che lo vide assumere un compito realmente politico quale mai fino ad allora, direttamente sostenuto.
Dopo la catastrofe dell’8 settembre egli ricevette, sia da Mussolini, che nel frattempo era stato liberato dalla sua prigione a Campo Imperatore , sia da parte del Governo tedesco, rappresentato dall’ambasciatore dott. Rahn, l’invito ad assumere la carica di Ministro della Difesa del nuovo Governo che si stava ricostituendo.
Il 9 settembre si costituirono le Forze Armate Repubblicane con quadri ufficiali e sottufficiali di carriera esclusivamente volontari.
Si stabilì che il trattamento fosse in tutto uguale a quello delle truppe germaniche.
Il 24 dello stesso mese il Duce firmò il decreto di nomina del Maresciallo a Ministro.
Sui motivi che spinsero Graziani a diventare Ministro della Difesa della R.S.I. circolarono e circolano tutt’ora le tesi più assurde e faziose: c’è chi sostenne che il Maresciallo si recò ripetutamente presso l’ambasciata tedesca a Roma per offrire i suoi servigi al tedesco invasore; chi disse che accettò l’incarico perché spinto da sete di potere e da una smodata ambizione; chi infine disse che fu costretto perché intimorito dalle SS che gli puntarono una pistola alla nuca.
Tutte queste versioni false furono frutto di odio scatenato dal nemico al fine di distruggere moralmente coloro che dopo l’8 settembre continuarono a combattere nelle file della R.S.I.
La consacrazione di questo autentico Risorgimento repubblicano per l’Italia avvenne al teatro “Adriano” di Roma il 1° ottobre, quando Graziani, nel suo discorso ad oltre quattromila ufficiali e valorosi combattenti precisò che: “chi vi parla è il Maresciallo d’Italia il quale, durante la sua lunga vita di soldato, ha conosciuto la mala sorte, il sole della gloria e l’ombra della ingratitudine.
Adesso egli è chiamato dal destino a stringere intorno a se gli italiani per cancellare la macchia della vergogna con la quale l’infedeltà e il tradimento hanno deturpato la bandiera d’Italia”.
Tra i veri motivi che portarono Graziani ad accettare l’incarico vi era anche quello di frapporsi fra il popolo italiano incolpevole e l’alleato tedesco reso furioso dal tradimento subito, allo scopo di riscattare l’onore militare degli italiani, che ormai era leso dal tradimento e da una resa incondizionata firmata dal Governo Badoglio.
Il suo atteggiamento fu quindi dettato interamente da sentimenti nazionali e da moventi altamente morali.
Graziani, con la collaborazione del Col. Emilio Canevari, fece approvare da Mussolini un promemoria in cui si sosteneva l’opportunità che l’Esercito da costituire dovesse rimanere ” Esercito Nazionale “, basato non solo sui volontari, ma anche sulla coscrizione, e costituito da grandi unità da addestrare < ex novo> nei campi di addestramento germanici; i quadri avrebbero dovuto essere tutti di ufficiali volontari a domanda e bisognava evitare ad ogni costo la guerra civile perciò le nuove truppe dovevano essere assolutamente tenute fuori dalla politica e mai impiegate in servizi di ordine pubblico.
Sulla base di tali propositi, furono siglati degli accordi con il comando supremo germanico che si concretizzarono il 16 ottobre: i tedeschi si impegnarono ad armare e istruire 4 Divisioni italiane, di cui una alpina, e successivamente altre 4; una nona Divisione corazzata doveva essere composta con personale italiano addestrato alla scuola di motorizzazione tedesca.
Il Comando italiano si impegnava, inoltre, a costituire un’unità di artiglieria da montagna, artiglieria contraerea e Genio, per un totale di 30.000 uomini, che dovevano essere posti immediatamente a disposizione del Maresciallo Kesserling.
Tutta la legislazione che portò alla creazione delle FF.AA. era disgraziatamente apolitica e ben presto dovette cedere il passo ad alcuni ambienti fascisti, che portarono alla creazione della Guardia Nazionale Repubblicana, unità autonoma e con proprio bilancio, che doveva, secondo il progetto iniziale, comprendere semplicemente i Carabinieri rimasti volontari, con integrazioni per raggiungere la cifra di circa 30.000 uomini scelti.
Invece la G.N.R. raggiunse la forza di 150.000 uomini; e in più si vennero a creare nelle varie Province le “Brigate Nere”, nelle quali furono inquadrati tutti gli iscritti al Partito che non erano ancora alle armi.
Sulla base dei principi precedentemente codificati il nucleo dell’Esercito Repubblicano venne costituito con 4 Divisioni di fanteria: Italia, San Marco, Monte Rosa e Littorio; esse vennero armate e perfettamente addestrate e nell’estate del ’44, tornate in Italia fra l’entusiasmo della popolazione, formarono, con alcune Divisioni tedesche, l’Armata Liguria, che si schierò dalla Garfagnana al San Bernardo.
Altre unità vennero costituite, e che compresero i 15.000 soldati italiani che, non avendo deposto le armi all’atto della vergognosa resa badogliana, per 20 mesi costituirono il presidio contro il nemico slavo alla nostra frontiera orientale.
L’Aeronautica si costituì con il poco materiale di volo disponibile; la nostra piccola caccia si fece massacrare per difendere le nostre città dai massicci e indiscriminati bombardamenti nemici e cobelligeranti.
La Marina fu pronta alla ricostruzione intorno alla bandiera tricolore della Decima Flottiglia Mas, che non fu mai ammainata, perché continuò semplicemente la sua azione di guerra senza tener conto della resa e senza aspettare che sorgesse un nuovo governo.
Migliaia di giovani volontari accorsero entusiasti.
L’apporto di valore dato all’Italia da questi marinai e soldati non deve essere dimenticato da nessuno perché, ogni giorno di più, appare evidente che essi si batterono per una causa del tutto nazionale, quale non era certo quella degli aviatori che Badoglio si vantò di aver mandato in aiuto a Tito e che servirono a facilitare la conquista slava della Venezia-Giulia.
Il valore dimostrato dai giovani marinai e soldati Repubblicani al servizio solo della Patria, in una lotta disperata, sotto il motto “Per l’Onore della Bandiera”, fu ed è titolo di gloria ed ampio riconoscimento non solo dall’alleato germanico, ma dal nemico stesso, che cavallerescamente volle manifestarlo.
Il Maresciallo Graziani assunse il comando dell’Armata Liguria il 15 agosto ’44; quanto all’azione militare svolta dalle truppe della Repubblica , si può così sintetizzare: le truppe delle Divisioni Monterosa e Littorio, in unione con le truppe germaniche, si opposero, sui passi alpini occidentali, al tentativo delle truppe golliste francesi ed americane di invadere il Piemonte e la Liguria dopo l’abbandono della Provenza, da parte dei tedeschi.
Alle dipendenze del Maresciallo Kesserling furono posti, oltre alle truppe di artiglieria da montagna e del Genio che si batterono sulle Alpi contro la 92ª Divisione americana e contro le truppe brasiliane, circa 68 battaglioni “costieri” e “territoriali” con circa 80.000 uomini.
Meritano uno speciale riconoscimento i reparti che difesero la frontiera orientale contro le bande slave di Tito, tra cui alcuni battaglioni Bersaglieri volontari: la Legione Tagliamento, composta di reduci dalla Russia e di volontari, in gran parte studenti, che difese fino all’ultimo il Friuli; i reparti della Divisione di Marina Decima.
Nella Venezia-Giulia vi furono anche notevoli reparti della G.N.R. che presidiarono Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, che la difesero fino all’ultimo e che caddero massacrati quasi totalmente.
Ormai le sorti della guerra erano segnate.
Le truppe anglo-americano erano alle porte di Milano e di molte altre città del nord del Paese.
Le truppe italiane si preparavano con dignità alla resa.
IL PROCESSO
LA PRIGIONIA
La notte tra il 29 e il 30 aprile del ’45 il Maresciallo Graziani si arrese presso il comando del IV Corpo d’Armata americano.
Dopo circa un mese di prigionia presso il campo di Cinecittà in Roma, il 12 giugno fu trasferito in aereo ad Algeri, presso il campo P.O.W. 211, come prigioniero di guerra, in ossequio alla decisione della Corte Internazionale Permanente, che aveva riconosciuto le truppe della Repubblica Sociale come “combattenti regolari”.
Con eccezione al regolamento inglese, Graziani fu accolto in una tenda nel quadrato ufficiali britannico, dove ebbe la matricola A.A.252533.
Dopo un breve periodo trascorso presso l’ospedale di Algeri, a seguito di problemi fisici, quando rientrò al campo chiese ed ottenne di essere destinato al reparto ufficiali italiano.
Al suo arrivo gli fu assegnata la tenda n° 21, ed egli divenne subito amico di tutti: chiunque poteva avvicinarlo e conversare con lui familiarmente.
Condusse la stessa vita degli altri: nei giorni festivi assisteva alla Messa comune; vestiva la divisa militare italiana di panno grigio-verde, senza gradi né distintivi di medaglie o ferite.
Il suo periodo di prigionia in Algeria si concluse il 16 febbraio 1946 quando fu trasferito in Italia con l’appellativo di prigioniero di guerra ( posizione esaminata dai Consigli per la punizione dei criminali di guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia e Francia) e non quale criminale di guerra, come invece amavano chiamarlo i suoi detrattori.
La stessa sera dell’arrivo venne internato a Procida.
Nel carcere il Maresciallo trovò, tra l’altro, alcuni dei suoi vecchi collaboratori: Gambara, Borghese, Canevari, Villari, Di Battista ed Esposito.
A Procida Graziani migliorò lentamente nel fisico, ma non nello spirito: camminava poco e si stancava in fretta perché non era più abituato al movimento; anche durante la mezzora d’aria traspariva il suo nervosismo e il desiderio di rientrare in camerata.
Via via che veniva a conoscenza dei fatti, degli atteggiamenti e dei giudizi relativi ai venti mesi della Repubblica Sociale, si agitava nel rivivere la tragedia; ma il travaglio non determinò dubbi in lui: sapeva e confermava di aver perseguito la strada dell’onore e del dovere.
Durante il periodo della detenzione Graziani scrisse e pubblicò tre volumi: “Ho difeso la patria”, “Africa settentrionale 1940-41”, “Libia redenta”.
Ogni suo racconto risultava essere preciso: mai esaltazioni o dubbi; ricordò con esattezza fatti, nomi, episodi, date; la chiarezza delle citazioni, dei riferimenti e dei giudizi era sorprendente.
Il 5 giugno ’48 al Maresciallo giunse la citazione a comparire in giudizio il 24 dello stesso mese al palazzo della Sapienza in Roma, davanti alla Corte d’Assise ordinaria.
In appena due mesi e mezzo fu tutto fatto: istruttoria completa e rinvio a giudizio; mentre migliaia di altri politici, con imputazioni meno complesse, giacevano in carcere da circa tre anni, molti di essi senza nemmeno essere stati interrogati.
Il 2 maggio 1950, ultimo dei sei giorni dibattimentali, Graziani pronunciò queste parole: “affermo innanzi tutto ancora una volta che solo la volontà di tutelare e difendere l’onore della Patria mi guidò nell’assumere la mia missione nel settembre del ’43.
Oggi, nelle stesse condizioni, farei altettanto.
[…] Dichiaro che la bandiera della Repubblica Sociale fu sempre e solo quella della Patria.
Quelli che servirono sotto di essa non possono quindi in nessun modo essere considerati traditori, ma hanno fatto il loro dovere verso il Paese”.
Alle ore 22.00 dello stesso giorno il presidente Gen. Di Corpo d’Armata Beraudo di Pralormo, del tribunale Militare Territoriale di Roma, dichiarò:
“Rodolfo Graziani colpevole del reato di collaborazione militare con il tedesco posteriormente all’8 settembre 1943 e diminuita la pena per gravi lesioni riportate e per atti di valore morale e sociale, lo condanna alla pena di anni 19 di reclusione dei quali 13 e 8 mesi condonati”.
Graziani fu dimesso dalle carceri nell’agosto del ’50 e, dopo una breve sosta a Roma, si trasferì ad Affile.
IL M.S.I.
Alla fine del processo, messo in libertà, dovette da subito dedicarsi alla ricostruzione del suo patrimonio finanziario, sminuito da rapine e devastazioni di ogni genere; riuscendovi in poco tempo, grazie anche all’aiuto di alcuni fedeli amici.
Il suo carattere volitivo e la sua forte personalità non potevano estraniarsi dalla situazione politica che regnava nella Penisola.
Fu così che divenne il Presidente della Federazione Nazionale dei Combattenti Repubblicani, che raccoglieva, a scopi di pura e semplice assistenza, i soldati superstiti della R.S.I. , i cui soci si trovavano in difficoltà finanziaria in quanto esclusi dalle associazioni ufficiali, nelle cui file erano stati fatti entrare invece tutti gli “altri combattenti” racchiusi nell’Art. 16.
Ma, da un lato il Governo, dall’altro i partiti politici, gelosi e timorosi di vedere risorgere una personalità così ancora popolare come quella di Graziani, fecero di tutto per farne fallire l’opera.
Si arrivò addirittura al paradosso allorchè il Ministro della Difesa, on. Pacciardi, emanò un decreto che, riportandosi ad una vecchia legge fascista, toglieva a Graziani le Medaglie al V.M., il distintivo di mutilato, ecc.
La lettera di risposta, potentemente sarcastica, terminava con le seguenti parole: “[…] radiate pure dai ruoli autentici soldati che alla Patria offrirono tutta la loro vita; cancellatene pure i segni del valore, delle ferite, delle mutilazioni; privateli dei diritti civili, politici e umani; togliete pure loro ed alle loro vedove ogni diritto di pensione; metteteli in una parola alla fame, e, peggio ancora, alla disperazione: ma per carità di questa stessa Patria alla quale essi fecero olocausto di ogni bene, smettete voi di esserne, proprio voi, il Ministro della Difesa.”
Nel mese di marzo del ’52 il Maresciallo, impiegando il suo prestigio, riusciva ad ottenere che tutte le varie associazioni di combattenti si raccogliessero sotto il suo patrocinio per svolgere un’azione coordinata.
Si arrivò così il 29 dello stesso mese al Patto di Cassino, concluso presso la storica Abbazia in ricostruzione.
Anche continuando a rimanere al di fuori e al di sopra di ogni parte, estraneo alla politica militante per la quale, del resto, non era affatto portato, e deciso ad occuparsi solo dei combattenti, era purtroppo circondato dallo sciocco timore governativo e dall’odio cieco dei partiti antinazionali, i quali non tralasciavano un’occasione per insultarlo.
Fu così che maturò l’idea di prendere parte diretta nella politica portandovi il peso della sua enorme popolarità: ed il 15 ottobre chiese la tessera del Movimento Sociale Italiano entrandovi come semplice iscritto.
Era tuttavia difficile, con il prestigio che lo circondava, che non divenisse punto di riferimento del partito.
Tanto era il suo carisma, che utilizzò la sua autorevole parola riconciliatrice per impedire la secessione di alcuni gruppi dell’Italia settentrionale.
Ma le sue buone intenzioni furono ben presto travisate ed ostacolate: annoiato, accennò anche al ritiro, ma la sua figura, di importanza nazionale ed internazionale, doveva rimanere al di sopra di beghe di partito.
Il M.S.I., temendo di perdere un punto di forza, lo convinse ad accettare la presidenza onoraria del movimento, insieme con il comandante Borghese.
Ogni sua partecipazione in pubblico si tramutava in un bagno di folla entusiasta.
Nei primi giorni del gennaio del 1954 si svolse a Viareggio il IV congresso nazionale del M.S.I. ed il Maresciallo, in qualità di Presidente onorario del movimento, inviò un suo messaggio che tracciava quella che sarebbe dovuta essere la linea politica generale da seguire e gli obiettivi su cui puntare al fine di rilanciare il movimento.
Purtroppo il nobile messaggio, a lungo studiato, che conteneva la sintesi della sua lunga esperienza, destò pochissima impressione fra i congressisti, preoccupati solo della imminente elezione per il comitato centrale del partito.
In sintesi, Graziani indicava, come scopo supremo da conseguire, la profonda modifica della Costituzione ciellenista, la quale, con il suo regime di partiti, rendeva penosa e artificiosa la vita politica dell’Italia.
Ma molti si trovavano ottimamente nel regime della partitocrazia che concedeva ad essi, come deputati e senatori, una condizione assolutamente eccezionale sia economicamente, sia giuridicamente, quali privilegiati posti al di sopra di ogni legge.
Perciò apparve estremamente inopportuna e inattuale l’idea di Graziani di una lotta per una nuova Costituzione.
Il Maresciallo, resosi conto dello stato d’animo del partito, così differente dal suo, si ritrasse dalla vita del movimento e, in generale, dalla vita cosiddetta politica.
Lo attrasse molto, durante l’ultimo periodo della sua vita, lo studio della difesa dell’Europa, come si presentava dopo la conclusione del Patto Atlantico, e i nuovi scenari di una nuova ipotetica guerra.
Sulla difesa europea il suo studio fu lungo e laborioso: egli possedeva una grande e completa documentazione e si teneva quotidianamente al corrente della situazione e degli avvenimenti in modo particolare per il problema militare, che naturalmente lo attraeva di più.
Secondo il Maresciallo Graziani, “per fare un Esercito europeo, occorrevano degli eserciti nazionali efficienti dai quali trarre Divisioni e Corpi d’Armata da raccogliere in unità superiori internazionali. […] naturalmente, se si potesse creare un’ Esercito realmente europeo, composto da Germania, Francia, Italia, Benelux, si potrebbe […] sfidare un eventuale attacco russo con la certezza di poterlo respingere vittoriosamente.”
Sul finire del novembre del ’54 Graziani cominciò a sentirsi male e dopo una serie di accertamenti medici subì anche un’operazione che fece emergere complicazioni inattese.
Alle ore 06.00 del mattino dell’11 gennaio 1955 si spense l’eroe di tante battaglie, punto di riferimento per milioni di combattenti e non.
Le sue ultime parole furono:”se questa è la mia ora, vado sereno al giudizio di Dio, perché ho sempre fatto il mio dovere.”
Il feretro fu composto nella bara secondo il suo ultimo comando: vestito della sdrucita sahariana, chiuso nel suo pastrano, che aveva conosciuto le tappe del suo viaggio terreno.
Al suo funerale partecipò una folla così enorme che era impossibile avvicinarsi alla chiesa.
Nessuna propaganda era stata fatta per invitare la popolazione ad assistere: il tutto si era svolto nella massima spontaneità.
Lungo il percorso del corteo funebre da Roma ad Affile intere popolazioni si riversarono nelle strade per dimostrare il loro rispetto per la memoria del grande Soldato d’Italia.
Le autorità politiche avrebbero voluto sabotare la cerimonia e la dimostrazione, come avevano fatto in cento altre occasioni.
Ma questa volta non osarono……