La frenesia di un cuore tutt’a un tratto impazzito
pareva premere da dentro la cassa toracica
centomila battiti tutti insieme, credimi, rombano
fra costole non dissimili da quelle custodite in quei gradoni,
solo irrorate di vermiglio ed erette ancora su due stivali sporchi.
E poi la Via Eroica, lastricata di sacrificio,
che conduce l’occhio e il passo sulla strada del martirio.
Come nell’ultimo viaggio di Cristo,
eccole li le tre croci a concludere un calvario,
quello di un popolo stavolta,
che ha disegnato col sangue i confini della Patria,
di quell’inchiostro che nessuno può cancellare,
di quell’inchiostro che tutti in corpo possediamo
eroi mancati, lo teniamo per noi.
Se solo ciò che si possiede può essere donato, cosa possiede chi tiene tutto per sé?
Viene da scorrere quei gradoni tutti quanti,
scivolando prima una mano e poi l’altra sui vostri nomi
per stringervi la mano senza saltare nessuno.
Vi ho parlato, voi avete risposto, pareva di sentirvi tuonare di vita,
pronti a scattare per tornare immortali ancora.
“Ecco, ora guarda da quassù.”
Voltate le spalle, lo sguardo inebriato
s’è smarrito su un orizzonte lontano e lungo come mai lo avevo notato prima.
E la bocca s’è dischiusa di meraviglia.
“Questo è vostro, come un testimone passato di mano in mano.
Sii Uomo se ti abbiamo ispirato il cuore, siate popolo se vi abbiamo illuminato una via.”
Con lo stivale sulle pietre del Carso mi sono sentito Italiano.
Non v’è un solo morto a Redipuglia.
Gianfranco
O viventi che uscite
se non sentite più sereno
e più gagliardo l’animo
voi sarete qui venuti invano”
Questa scritta esposta all’uscita del Redipuglia riassume tutta la mia giornata di sabato …
Più sereno: perché è sempre bello passare una giornata con vecchi camerati ad ammirare quanto era bello,
imponente, il nostro passato
Più gagliardo: perché alla fine di una giornata, comunque stancante, ti rendi conto di essere un privilegiato ad
appartenere a questa realtà e provare certe emozioni…
Nicola
Siamo di un’era diversa, ma l’anima è la stessa…”
Erano anni che attendevo questo momento. Eppure, per un motivo o per l’altro sembrava sfuggirmi, ma nulla avviene per caso. Mille emozioni si susseguivano dentro di me, mentre le note di una canzone prendevano il posto di quella precedente in un crescendo di armonia e ritmo. Eppure, sapevo che non era solo il concerto a rendermi così libera e serena. Sentivo la mia voce intonare, insieme ad altre cento, il canto per quella città tanto contesa ed amata. Le mani dietro la schiena, lo sguardo fiero e commosso, il cuore che accelerava ad ogni nota. Mi voltai un momento ad osservare la mia gente. Ero davvero fiera di loro. Solo pochi minuti prima, ci stavamo scatenando al ritmo di canzoni goliardiche ed allegre. Ma ogni momento possiede la sua importanza, e non appena le note di Trieste 1953 risuonarono nel capannone, tutti, con una naturalezza innata, ci voltammo verso il palco, composti e felici. Ho assistito a molte scene come questa, eppure in quella sera riuscì a strapparmi un sorriso. Cantavo, e attraverso quelle parole, entrate nella mia memoria tempo addietro, ripercorrevo vie e tempi forse lontani e dimenticati. Ma quando sentii la mia voce urlare: “La Patria!”, un brivido mi scosse la schiena. E, in un istante, tornai con la mente al pomeriggio poco distante. Rividi davanti a me il monumentale sacrario, l’eco di tutti quei “PRESENTE” risuonò nella mia mente, come fossero intonati da mille voci diverse. Le parole scolpite nella pietra, monito al visitatore, avevano riempito il mio animo di inaspettata gioia e speranza.
No, ragazzi, non siete morti invano.
Ogni passo che percorremmo per avvicinarci alle ripide scale della Via Eroica era carico di significati ed emozioni. Tutti sorridenti, eppure nessuno rovinò la sacralità di questo luogo, ognuno capì nell’animo l’importanza del suolo che stavamo calpestando. E, abbastanza lentamente in modo da poter cogliere ogni particolare, custodire ogni attimo, salimmo verso la cima. Molti sono i pensieri che attraversarono il mio animo commosso ed emozionato. Mi voltai verso la vallata, e il fiato venne meno. Ai piedi del sacrario, sventolava, nel cielo di marzo, il Tricolore. Mi fermai a contemplarlo per qualche istante. Quanto si può lottare per un pezzo di stoffa. Ma è davvero solo questo? No, la bandiera è molto di più, la bandiera è la Patria, la bandiera è tutto. Questi eroi sono morti per lei, la nostra generazione a stento la riconosce. Pensai a Giacomo, il mio bisnonno, che fu uno di questi splendidi ragazzi. Ho un dolcissimo ricordo di questo meraviglioso italiano, donatami dalle parole di mia nonna: un uomo che durante l’emigrazione in Francia prendeva di soppiatto una valigia da sotto il letto, la apriva e, sotto gli occhi stupiti della figlia piccola, sollevava tra le mani tremanti il Tricolore e lo baciava con amore reverenziale. Dove sono finiti quegli uomini? Scossi la testa e continuai a salire, passo dopo passo, nome dopo nome, Presente dopo Presente. Quella parola. Quanto potente e duratura e carica di significati, può essere un’unica parola. Prima di salire Gianfranco aveva ricordato a noi tutti il suo significato, ripercorrendo la storia della sua “nascita”. Ma non si era limitato a questo. Ci aveva invitati a riflettere, a ricordare: ogni volta che chiamiamo un Presente, sia esso urlato o sussurrato, non stiamo solo ricordando chi più non c’è, ma gli stiamo facendo una promessa: non morirà mai se il suo spirito e la sua lotta continueranno a vivere in noi. E, quasi automaticamente, il mio pensiero volò da Sergio e ripercorse con la mente tutte le sere di aprile, anno dopo anno, in cui ho consacrato davanti al suo portone la mia promessa. (“Siamo di un’era diversa ma l’anima è la stessa…” cantavano qualche minuto fa gli Ultima Frontiera.) Dopo la visita al sacrario, con i cuori carichi di emozioni, turbamenti e ricordi ci dirigemmo, tra chiacchiere e racconti verso le vere trincee. Calpestare quel suolo fu un’esperienza davvero toccante. Quello che mi colpì di quelle zone fu la terra: rossa, come fosse ancora intrisa del sangue delle migliaia di ragazzi che accolse tra le sue braccia.
No, pensai guardandomi attorno, queste non sono le mie montagne. Ma il sacrario sul Grappa, infondo, non è poi così diverso, e l’aria che si respira è la stessa: sacrificio e amor di Patria. E’ lì che Giacomo disse a mia nonna bambina di inginocchiarsi e baciare la terra, perchè era benedetta dal sangue del sacrificio di migliaia di giovani ragazzi. Lei non ha mai dimenticato quelle parole, e nemmeno io lo farò. Come vorrei che i nostri figli fossero degni del loro esempio, pensai dolcemente, mentre ridiscendevo le scale marmoree.
Fu in quel preciso momento che mi resi conto dell’immensa responsabilità di essere donna.
Già, i nostri figli, i miei figli, come vorrei che fossero migliori. Fa’ che sia degna di tale compito, sussurrai nella mia mente. Ed un sorriso etereo mi si posò sul viso, con quel pensiero mi avvicinai al pezzo di trincea conservato ai piedi del monumento. Percorrsi quei camminamenti angusti e stretti con cautela, un passo dopo l’altro. Chiusi gli occhi e mi sembrò di sentire i mille rumori della vita durante la battaglia: gli ordini dei superiori urlati da un capo all’altro, le chiacchiere dei soldati, qualche risata, bisticcio o pianto e, in lontananza, il rombo del cannone. Mi si strinse il cuore. Mentre la mia mano sfiorava la pietra, senza neanche accorgermene, iniziai ad intonare, in un sussurro : “Rendimi sempre più degno dei nostri morti, affinché loro stessi, i più forti, rispondano ai vivi.. Presente!”.
E di nuovo un sorriso mi si piazzò sul viso. Stavo per andarmene, dovevo affrettarmi a raggiungere gli altri, per salutare chi tornerà subito a casa.
D’un tratto, quando ero quasi all’uscita del sacrario, qualcosa ci paralizzò tutti. Mi fermai, mi voltai, poi indietreggiai di qualche passo per raggiungere gli altri e restai immobile, di fronte al sacrario.Non avevo bisogno di girarmi per sapere che anche gli altri erano rimasti paralizzati e attoniti, colpiti nell’animo.
Le note del Silenzio avevano riempito l’aria intorno a noi, rendendola carica di sacralità.
Il mio animo era sereno e gagliardo: grazie ragazzi, non sono giunta invano.
Elisa
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